Accademia ed EBM sono universi spesso distanti. Uno studente di medicina può concludere il proprio percorso di studi senza quasi aver mai sentito parlare di medicina basata sulle prove di efficacia. Nel corso dei primi cinque anni di università, avrà frequentato le lezioni di statistica medica e avrà seguito uno o più corsi di epidemiologia clinica, mettendo a fuoco il perimetro e le coordinate della ricerca clinica. Ma, salvo occasioni incidentali e fortuite, il paradigma dell’Evidence Based Medicine rimane sullo sfondo, genericamente associato alla necessità di fare riferimento a studi e ricerche che abbiano valutato l’efficacia dei trattamenti sanitari.
Se è vero che, pur in assenza di una precisa consapevolezza teorica e metodologica, gli studi clinici randomizzati sono riconosciuti dai professionisti sanitari come il più importante e affidabile disegno sperimentale per verificare l’efficacia di un trattamento e se, allo stesso modo, revisioni sistematiche e linee guida sono identificate come i principali e prodotti di letteratura secondaria scaturiti dall’EBM, ciò non significa che chi legge uno studio sia sempre in grado di comprenderne le scelte metodologiche e di giudicarne la qualità.
In Italia, l’affermazione dell’EBM procede a rilento rispetto ad altri paesi. Eppure, negli ultimi anni alcuni importanti interventi legislativi l’hanno di fatto introdotta nel sistema normativo che regolamenta la pratica clinica, con effetti diretti sulla professionalità degli operatori.
In particolare, nel marzo del 2017, la legge Gelli ha identificato nelle linee guida lo strumento di riferimento per la disciplina della responsabilità professionale in campo sanitario: la legge prevede che “in caso di imperizia, la punibilità dell’operatore sanitario sia esclusa quando siano rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali”.
Il ruolo delle evidenze prodotte dalla ricerca clinica assume una centralità inedita, come pure il tema della qualità delle raccomandazioni cliniche, la cui formulazione deve posare su presupposti metodologici sistematici, rigorosi e trasparenti.
Uno dei compiti dell’accademia è quello di colmare la lacuna formativa che esiste tra gli insegnamenti tradizionali dei corsi di laurea e la nuova domanda di competenze metodologiche indispensabili per produrre raccomandazioni cliniche affidabili, trasparenti e di buona qualità.
Un’esigenza che da qualche anno viene raccolta da diversi atenei italiani e colmata attraverso percorsi di perfezionamento post laurea accurati e qualificanti, capaci di dare un importante valore aggiunto alla ricerca, fuori e dentro l’accademia. Avviene a Modena e Reggio Emilia, dove le revisioni svolte secondo la metodologia della Cochrane Collaboration sono oggetto di un corso che dura diversi mesi (https://www.cochrane.it/it/corso-di-perfezionamento-revisioni-sistematiche-e-meta-analisi-cochrane); avviene a Milano, dove l’Università degli Studi rivolge ai neolaureati e ai professionisti avviati tre programmi di formazione dedicati ai più importanti disegni di studio in area clinica: studi clinici randomizzati, le revisioni sistematiche della letteratura e le linee guida.